Sono nata in Germania nel 1964.
All‘età di 2 anni i miei genitori mi hanno portato in Sicilia dai nonni. Mia madre doveva dare alla luce mia sorella e non sapeva con chi lasciarmi.
Dopo qualche mese sono tornati a prendermi, per poi, all‘età di 4 anni riportarmi nuovamente in Sicilia, questa volta insieme a mia sorella, perché mia madre dava alla luce nostro fratello.
Questa seconda volta rimasi con la famiglia siciliana per 9 mesi.
Così mi ricordo il momento in cui mio padre fermò la macchina nel cortile di quello che definì „la vostra nuova casa“.
Si trattava di una casa a tre piani. Noi abitavamo in un appartamento composto da una camera da letto, in cui dormivamo in 5, un bagno e una cucina. Era un sottotetto. Io avevo solo grandi occhi curiosi per questa nuova realtà.
Il ricordo successivo è stato il momento in cui mia madre mi disse: „Domani andrai al Kindergarten.“ Ero felice, non sapevo cosa fosse, ma suonava avventuroso. In effetti, mi piaceva stare al Kindergarten. Mia sorella piangeva molto, e io dovevo fare da traduttrice per lei con le maestre. In qualche modo avevo appreso la lingua tedesca senza alcuna difficoltà.
In famiglia abbiamo sempre parlato in tedesco tra noi fratelli, in tedesco con mia madre e mio padre che però rispendevano in siciliano. Negli ultimi anni anche mia madre parlava solo il tedesco, mentre mio padre non andò mai oltre le prime nozioni apprese nei primi due anni in Germania.
Sono cresciuta con la televisione tedesca degli anni 70 quando i programmi per bambini erano prevalentemente costituiti da Lessie, Flipper e i documentari di Jacques-Yves Cousteau.
C’è un filmato in particolare che segna un prima e un dopo me. Conclude verosimilmente la mia infanzia e la mia visione romantica della vita in cui i bambini sono protetti dagli adulti che si occupano di loro in tutto e per tutto.
Riguarda le tartarughe marine.
La mamma tartaruga risale visibilmente affaticata la battigia del mare fino al punto che le sembra quello idoneo, inizia a spadellare la sabbia formando una fossa abbastanza profonda secondo i suoi canoni e a deporvi le uova. Dopo richiude tutto più o meno accuratamente e torna visibilmente sollevata ed alleggerita nel mare, sicura di aver fatto tutto quanto a lei spettasse.
Del padre, nessuna traccia.
Io stavo lì, aspettando il suo ritorno. Niente. Aspettavo che facesse una sorpresa ai suoi piccoli. Niente. Presto mi resi conto, che non sarebbe tornata. Aveva girato le spalle ai suoi figli ed era scomparsa, noncurante di loro.
Iniziai a prefigurare la catastrofe. Sospettavo che il buco non fosse abbastanza profondo, madre sciagurata, e in effetti serpenti e ratti man mano si facevano avanti a saccheggiare il nido. Stavo lì incredula a vedere la schiusa delle uova e le piccole vite sbucare dalla sabbia iniziare una folle corsa per raggiungere il mare. La spiaggia era disseminata dalla loro presenza. Uccelli rapaci si fiondavano come su un lauto banchetto. Ero inorridita.
Qualche tartarughina riusciva a raggiungere il mare, ma lì altri predatori la stavano già aspettando. Lo speaker commentava con voce impassibile che su 500 uova depositate dalla madre in 4 nidi, solo una 20ina di tartarughe avrebbe raggiunto l’età adulta.
Ero sotto shock. Ho sempre pensato che i genitori potessero abbandonare i figli al loro destino, ma che fosse addirittura permesso dalla natura mi sconvolse.
Altri documentari mi confermarono che il padre era veramente un optional per molte specie animali. Così ero molto grata al mio, che si prendeva amorevolmente cura di noi, non lo davo più per scontato.
Da quel giorno, da quel documentario, mi sono chiesta, perché la vita fosse così crudele. Perché far schiudere tutte quelle uova per poi non proteggerli. Perché questo spreco di vite? E, soprattutto, la madre tartaruga veramente non poteva fare niente di diverso per i suoi figli? Tanto era la sua fiducia nella buona riuscita della sua impresa, tanto si fidava del buon esito per la vita della sua prole?
Ho iniziato a studiare da lì.
Durante la seconda elementare la nostra maestra ci parlò della fame nel mondo. Nel 1970 iniziarono a circolare le prime immagini e documentari su bambini africani con pance gonfie di fame. I genitori della mia migliore amica avevano adottato una bambina recandosi direttamente in Africa. Insieme alla bambina avevano portato oggetti delle tradizioni africane. Ho visto le prime maschere di legno appese a casa loro e ho molto ammirato le fattezze e le capacità manifatturiere, in contrasto con il racconto dello sottosviluppo che aveva causato la fame nel Terzo Mondo – secondo il racconto della mia maestra. In quegli anni eravamo circa 2,5 miliardi di abitanti nel mondo. Per il 2000 – che mi sembrava veramente molto lontano – la maestra diceva che saremmo diventati il doppio e che non c‘era da mangiare per tutti.
Io ero soprappeso. Non capivo come fosse possibile che io avessi troppo e loro niente.
Ancora più avanti negli anni ‘77 il film Roots, quello di Kunta Kinte, mi fece scoprire la storia degli schiavi. Appresi che in America, sull‘intero continente, non ci fossero persone nere, e che tutte le persone di pelle nera o meticcia erano state strappate al continente africano e affondavano le loro radici nella schiavitù.
A Erlangen, la mia città, a 20 km da Nürnberg, stazionava una base militare americana, con molti soldati neri. Erlangen è la sede della Siemens, tutta l‘università della città era improntata allo studio e lo sviluppo di nuove tecnologie. Mia madre ha lavorato per 30 in fabbrica saldando microchip per apparecchiature sofisticate che potevamo vedere una volta all‘anno nel giorno delle porte aperte ai familiari e visitatori. Tant‘è che solo arrivata in Italia ho scoperto che la Siemens fabbricasse anche elettrodomestici in altri stabilimenti in giro per la Germania. Abitavamo in un complesso composto da 4 grattacieli modernissimi esposti lungo l’Europakanal che collegava con i suoi 171 km il Meno, il Reno e il Danubio, una costruzione, alla quale mio padre, immigrato in Germania nel 1960 aveva lavorato da ferraiolo, preparando l‘armatura di ferro sulla quale poi veniva calata la colata di cemento, che, appunto, si chiama cemento armato proprio per questo motivo. In quell‘occasione aveva visto posare i fondamento dei futuri grattacieli e sentenziato che mai ci sarebbe andato ad abitare, salvo poi qualche anno dopo trasferirsi in uno dei generosi appartamenti al 14esimo piano e anni dopo ancora comprare lo stesso appartamento.
Nel nostro condominio della Siemens abitavano famiglie di soldati e nel cortile giocavamo a football americano con i bambini. Adoravo farmi fare le treccine dalle loro mamme.
Dopo Roots ho visto i neri d‘America con altri occhi.
Nella mia scuola alcuni ragazzi delle classi superiori vestivano solo in abiti arancioni. Si mormorava che fumassero droghe alla ricerca del ‘Nirvana’, una specie di paradiso, però non cattolico. Nel 1971 erano seguaci di Bhagwan, prima che nel 1981 cambiasse il suo nome in Osho e vestisse di bianco – i suoi seguaci lo seguirono in questo cambiamento di colore.
Altri portavano i capelli lunghi e disegni di fiori sui jeans. Anche loro fumavano droghe però con lo slogan “Fate l’amore e non la guerra!”. Io non comprendevo bene. Appresi della guerra del Vietnam solo, perché gli stessi genitori della mia amica addottorano un‘altra bambina, questa volta nel Vietnam, trovata in una fossa accanto alla madre uccisa. Non riuscì a non pensare che forse qualche padre soldato dei miei amici di cortile poteva essere stato in Vietnam a rendere orfana una bambina. Pensai all’assurdità della vita: Potevo giocare con bambini i cui genitori erano soldati che venivano ad Erlangen, dopo aver servito al fronte in Vietnam, per rilassarsi nella nostra città ridente degli effetti devastanti della guerra, le cui conseguenze erano concentrati sulla sorella della mia migliore amica, balbuziente per il trauma della madre uccisa accanto a lei in Vietnam? E come i seguaci di Bhagwan e i Figli dei Fiori incidevano su questi eventi attraverso la ricerca del Nirvana, l‘uso di droghe e il sesso libero, rispetto ai genitori della mia amica?
Sempre in quel periodo venne inaugurato il primo McDonald’s nella città Fürth, vicino a Erlangen, città di divertimento per i soldati americani. Mio papa ci portò, perché anche in quel caso la sua ditta aveva curato i lavoro. A Erlangen il primo McDonald‘s venne creato in una costruzione antica risalente al periodo di fondazione della città nel 1743, nella quale fino a poco tempo prima c‘era l‘ufficio postale, meravigliosamente antico, che avevamo visitato nella scuola elementare come escursione scolastica. Ero shockata. Salve poi lavorarci da giovane studentessa per qualche mese.
Qualche anno dopo ancora approdai al periodo Nazista e conobbi la storia dell’olocausto degli ebrei. Avevo 13 anni e una insegnante molto coraggiosa che anticipò il programma di studi, per non perdere queste nozioni di storia tedesca. Tra le altre cose appresi che la Siemens – così come tutti gli altri nomi importanti dell‘industria tedesca – era importante e all‘avanguardia perché durante il periodo del Nazismo aveva abbondantemente approfittato della possibilità di impiegare ebrei e prigionieri di guerra a costo zero nei suoi stabilimenti. Tant‘è che l‘industria tedesca alla fine della guerra aveva un impianto macchine all‘avanguardia e per il 90% funzionante, dove nel resto dell‘Europa gli uomini combattevano al fronte con una perdita di capacità industriale che pose la Germania in pochi anni dalla fine della guerra a capo del settore, un vantaggio che ha mantenuto nei decenni potendo puntare su formazione e sviluppo, dove le altre nazioni dovevano ricominciare a ricostruire il comparto.
Ho visto le foto delle baracche di legno che componevano i campi di concentramento. Erano le stesse baracche viste sulle fotografie dei miei genitori e dei miei zii. Quando nel 1960 mio papà portò la sua giovane sposa, mia madre 21enne, in Germania, dove lui lavorava dal 1958, reclutato dal governo italiano in accordo con il governo tedesco per l‘invio di giovani lavoratori uomini in buona salute, per lo più provenienti dal Sud, gli venne assegnata una baracca tutta per loro, mentre gli uomini non sposati dormivano in baracche comuni. I miei rimasero in baracca 6 mesi, prima che mio padre potesse affittare una casa per la sua giovane famiglia in crescita.
Adesso mi chiedevo se quei simpatici vecchietti dei nonni dei miei compagni che vedevo così pacifici seduti in poltrona a leggere il giornale e a fare battute sugli italiani „traditori dei tedeschi in due guerre“, fossero gli stessi che in quelle baracche avevano trucidato ebrei.
Posso dire che a 13 anni alla mia domanda iniziale sulla crudeltà e il menefreghismo della mamma tartaruga e l‘assenza altrettanto imperdonabile del papa tartaruga, si erano aggiunte le 3 domande esistenziali allora impossibili per me da comprendere:
Perché io sono grassa, e in Africa i bambini muoiono per la fame?
Perché qualcuno ha pensato di poter schiavizzare i neri d‘Africa?
Perché qualcuno ha pensato di poter sterminare gli ebrei?
A 13 anni si aggiunse una domanda più privata, egoistica.
Perché mio padre è emigrato in Germania?
Ho studiato e mi sono formata dando risposte alle mie domande. Ho studiato geografia, storia, politica, economia, il fenomeno mafioso, religione – anche se a 8 anni sono uscita dalla chiesa – e filosofia. Ho studiato il cervello umano, le leggi della natura, chimica, biologia, fisica, le cellule, i tessuti, gli organi, la loro collaborazione in apparati componendo il corpo umano.
A 14 anni un‘altra insegnante molto coraggiosa ci invitò a partecipare ad incontri tra giovani nel suo saluto di casa. In realtà scoprì si trattasse di ‘psicologia di gruppo’ secondo il modello di Erich Fromm, professore della mia maestra, che si recava insieme ad alcuni compagni regolarmente in Svizzera per assistere alle sue lezioni. Andarono anche al suo funerale nel 1980, organizzando un pullman dalla nostra città.
Io non ebbi il permesso di mia madre. Da buona ragazza italiana non potevo dormire fuori casa. Durante questi 2 anni di partecipazione al gruppo appresi l‘importanza dell’appartenenza come motore di spinta decisionale. Ogni mia decisione di quegli anni era equilibrata tra il rischio di essere ripudiata da mia madre perché troppo tedesca, o essere lasciata a casa dalle mie amiche perché troppo siciliana. Non comprendevo tutto sto blaterare di sesso. Per me la necessità più impellente era e rimane l’appartenenza.
In tutti quegli anni, dalle tartarughe a Fromm, ho compreso che la vita è interconnessa e sistemica. A 14 anni avevo una visione sistemica della vita. E avevo compreso che un sistema agisce in un determinato ambiente, è inscindibile dall’ambiente. Avevo compreso che una volta parte di un sistema, questo diventava così interiorizzato da essere trasportato in se ovunque, indipendentemente dalle circostanze geografiche-socio-culturali-storiche-politiche. Così come mia madre aveva vissuto il suo sistema famiglia in Sicilia in un paese di 450 abitanti che viveva di susistenza, così viveva ad Erlangen, Sede della Siemens, una città che nel 1974 festeggiò i 100.000 abitanti con grande gioia classificandosi come Gorßstadt. C‘ero anche io in quell‘occasione, con una specie di countdown preparato da settimane a scuola. Se non ricordo male, la bambina nata a raggiungere quel traguardo non era di origine tedesca.
Le basi per l’individuazione e la comprensione del Sistema Gemellare sono proprio queste. La curiosità di fronte ad una iperstimolazione vissuta attentamente con gli occhi da bambina e adolescente sbalordita, dinanzi a fenomeni mondiali nel salotto di casa, e la costante ricerca di un perché di questi fenomeni.
Non è vero che la formazione non serve. Serve ad esempio ad osservare le leggi della natura e il profondo equilibrio tra le forze che la governano. Serve per evitare che un fenomeno naturale che non ho appreso venga spostato su un piano extra-dimensionale-spirituale, piuttosto di rimanere nell’osservazione fenomenologica e lo studio del fenomeno. Serve per non essere manipolabile, ma a raccogliere e comprendere ogni singolo componete del quadro complessivo. Serve ad abbandonare una visione fatalistica e a raggiungere una visione deterministica della propria vita.
Riconoscere ciò che è. Conoscere, non credere.